Il medico nell’esecuzione della sua prestazione professionale deve utilizzare strumenti tecnici adeguati al tipo di attività espletata e operare con la perizia propria della sua qualifica professionale, soprattutto quando è in possesso di una specializzazione in un determinato settore di attività.
Il contenuto della perizia dovuta dal sanitario si determina con riferimento allo standard professionale della sua categoria che impone al debitore della prestazione di cura un corrispondente sforzo diligente per conseguire il predetto standard.
Il sanitario, inoltre, deve tenere un comportamento leale e corretto, anche laddove adempie agli obblighi informativi nei confronti del paziente, onde evitare di ricadere in responsabilità in ordine a falsi affidamenti generati con il suo atteggiamento.
In definitiva, sul piano della responsabilità civile, la condotta del medico deve essere valutata sotto il profilo della diligenza qualificata e della buona fede e correttezza e deve essere verificato se le conseguenze dannose lamentate dal paziente siano la conseguenza - più probabile che non - di un evento lesivo cagionato dal comportamento colposo ascritto al sanitario.
Solo se al medico è contestato un comportamento omissivo è necessario verificare, attraverso il cosiddetto “giudizio controfattuale” se la condotta doverosa, ingiustamente omessa, sarebbe stata in grado di evitare l’evento dannoso qualora fosse stata debitamente tenuta.
Questi importanti principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza oggetto di questo commento che, pur non riguardando specificamente la responsabilità professionale dell’oculista, appare interessante sotto diversi punti di vista.
Infatti la Suprema Corte, nella motivazione della sua decisione di annullamento della sentenza d’appello di assoluzione di un sanitario dalla domanda di risarcimento danni avanzata nei suoi confronti, ha riassunto i principi fondamentali da applicare nella materia della responsabilità professionale medica in caso di “insuccesso” delle cure.
La ripartizione degli oneri probatori nei giudizi di responsabilità professionale
Afferma la Corte che in caso di “insuccesso” incombe al medico (o alla struttura) provare che il risultato “anomalo” o “anormale” dell’intervento di cura dipende da un fatto “a sè non imputabile” in quanto non conseguenza della sua corretta condotta, mantenuta in conformità alla diligenza dovuta in relazione alle circostanze del caso concreto in esame, ma derivante da “un evento imprevedibile e non superabile” con la predetta diligenza.
La Cassazione sembra affermare che si è in presenza di un risultato “anomalo” quando l’esito dell’intervento si discosta “da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza”, con la conseguenza che se un tipo di intervento - che di norma ha un esito positivo - nel caso di specie ha in ipotesi un esito negativo, compete al medico provare che le ragioni dell’insuccesso dipendono da una causa imprevedibile e inevitabile con la prescritta diligenza.
Altrimenti il medico (o la struttura) saranno tenuti a rispondere sul piano civilistico dei danni cagionati al paziente.
L’onere, posto a carico del medico al fine di essere assolto, di dare la prova positiva del fatto che ha impedito il raggiungimento dello scopo normale dell’intervento, pone il sanitario in una difficile posizione processuale perché non sempre è possibile dimostrare le ragioni di un insuccesso.
Ecco perché una giurisprudenza, allo stato minoritaria, ritiene che al medico, per evitare la condanna, sia sufficiente dimostrare di avere correttamente e diligentemente adempiuto ai propri doveri di cura, così indirettamente dimostrando che l’esito anomalo non dipende dalla sua attività professionale.
Il nesso di causalità
La Cassazione, infine, nella sentenza in commento, ribadisce che nell’accertamento del nesso di causalità in materia civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
In sostanza la regola vigente per l’accertamento della causalità in materia civile consente di ritenere la sussistenza del nesso in base ad una soglia di probabilità certamente inferiore rispetto a quanto richiesto nel processo penale, fermo restando che il giudice deve analizzare compiutamente tutte le evidenze probatorie agli atti di causa per verificare se la condotta colposa del medico sia stata o meno la causa dell’evento dannoso di cui si discute.
In presenza di una condotta che ha violato la regola cautelare diretta a prevenire un determinato rischio, poi concretizzatosi, è possibile, comunque, ritenere presuntivamente sussistente il nesso di causalità, se non emergono dagli atti elementi contrari.
Conclusioni
Da quanto precede emerge l’importanza per il medico di tenere in modo corretto e puntuale la documentazione clinica di pertinenza perché questa documentazione può essere utile a descrivere la situazione clinica in concreto affrontata dal sanitario e le difficoltà operative eventualmente incontrate nel tentativo di raggiungere il risultato dell’intervento, previsto come esito “normale” dello stesso.
D’altra parte la regolare tenuta della cartella clinica, che deve essere redatta con completezza, chiarezza e diligenza, costituisce un precetto deontologico ribadito anche nel codice di deontologia medica del 2014.
Appare evidente, comunque, che per un medico è più agevole difendersi in sede di processo penale che in sede di procedimento civile alla luce delle diverse regole che devono essere applicate per accertare la responsabilità penale rispetto a quella civile, come ribadito anche dalla sentenza in commento.
FACCIAMO Il PUNTO |
La Corte di Cassazione attribuisce al medico gravosi oneri probatori al fine di essere assolto dalla domanda di risarcimento danni avanzata dal paziente, richiamando anche il principio di c.d. “vicinanza alla prova” ovvero il criterio secondo cui il sanitario debitore della prestazione incriminata ha maggiori possibilità di fornire la prova delle ragioni dell’insuccesso di un intervento da lui operato, “in quanto rientrante nella sua sfera di dominio”, soprattutto quando si tratta di prestazioni che comportano l’applicazione di regole tecniche proprie del suo specifico bagaglio professionale ed estranee alla normale conoscenza del paziente. La Suprema Corte, inoltre, sottolinea che se la causa di un evento rimane “ignota” il medico non può essere assolto dalla domanda avversaria perché non è riuscito a dare la prova positiva liberatoria e, quindi, non è riuscito a superare la presunzione di responsabilità posta a suo carico, presunzione che si fonda sul principio di generale “favor” per il danneggiato esistente nel nostro ordinamento, nonché sulla rilevanza che assume in questa specifica materia il principio della ”colpa obiettiva” di non essere stato capace di adempiere alla sua prestazione in modo da evitare il danno occorso. |