L’arbitro ha sempre ragione?

Quando il consulente del giudice non vede il rigore

Le metafore calcistiche sono sempre molto efficaci e utilizzabili un po’ in tutti i campi dello scibile umano. Un simile riferimento nel nel settore delle consulenze tecniche d’ufficio e delle perizie significa proprio che, a volte, alcuni comportamenti non sono adeguatamente prevenuti né censurati.

Per i fortunati oculisti che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia, giova spiegare quali siano i termini della questione.
Ogni causa civile e ogni imputazione penale trovano origine in una relazione medico-legale che il privato cittadino, in un caso, e il pubblico ministero, nell’altro, richiedono ai loro consulenti.

Il giudice, a sua volta, avrà bisogno, per comprendere le questioni medico legali, di propri esperti, che nominerà scegliendoli dall’albo presente in ogni ufficio giudiziario.
La prima distinzione è terminologica: consulenza per il processo civile e perizia per quello penale. In sostanza, nessuna differenza, si tratta sempre di pareri redatti da medici legali in collaborazione, come prevede espressamente la legge Gelli, con specialisti scelti in base al caso clinico in esame. Stiamo parlando di relazioni ‘di parte’.

La persona che ha subìto un preteso danno da malpractice e vuole ricorrere davanti al giudice civile per ottenere il risarcimento o il pubblico ministero, nei reati perseguibili d’ufficio, e la vittima del reato, in quelli che traggono impulso da querela di parte, nel processo penale, sono tenuti a sostenere le proprie domande in forza di motivazioni cliniche ed evidenze scientifiche.

Il giudice si troverà di fronte a due tesi contrapposte e antitetiche e per decidere non potrà fare altro che formare un proprio collegio di consulenti o di periti, che gli consentano di avere un quadro chiaro della situazione e, soprattutto, che gli rappresentino le condotte doverose che ci si sarebbe attesi dal professionista diligente, in aderenza alle linee guida e alle buone pratiche cliniche, e che, invece, sono state disattese.

Anche la formazione del collegio non può prescindere da considerazioni di competenze specifiche che proprio la legge Gelli identifica in modo puntuale all’art. 15. Il Comitato Albo del Tribunale di Milano ha realizzato una complessa e doverosa attività di verifica, individuando per ogni professionista la specializzazione generale e poi quella prevalentemente praticata. Riferendosi a un oculista, ad esempio, si farà riferimento al settore nel quale ha conseguito maggiore esperienza (diagnostica, chirurgia, ecc.). Lodevole l’intento del legislatore così come il ruolo svolto da quei tribunali che, in aderenza alla norma, hanno identificato il percorso formativo ed esperienziale dei consulenti ammessi all’iscrizione nell’albo.

Sarà il giudice o il medico legale, sempre presente nel collegio, a convocare gli specialisti individuati come esperti della materia: a quale soggetto spetti , è una questione aperta, la cui soluzione propende nell’attribuzione al medico legale, per ragioni di competenza, di tale scelta.

Se l’interesse di tutte le parti in causa è quello di ottenere un’adeguata e, soprattutto, oggettiva valutazione dei comportamenti dei medici specialisti, a volte, questa istanza viene disattesa. Ed ecco che torna in gioco la metafora calcistica: i consulenti del giudice dovrebbero essere attenti e inflessibili nella considerazione non solo della preparazione dei professionisti ma anche della loro neutralità nei confronti di tutti i soggetti coinvolti.
Esemplificando: se un oculista ha già visitato il paziente, sia come libero professionista che come dipendente di una struttura sanitaria, non potrà evidentemente essere sereno nel giudizio una volta che, investito del ruolo di consulente nel collegio, dovrà valutare una situazione già, anche se magari parzialmente, conosciuta.

L’art. 62 del Codice di deontologia medica è molto chiaro su questo punto, subordinando ogni attività medico-legale al rispetto dei principi deontologici che ispirano la buona pratica professionale. Non solo. La norma afferma in modo netto che “Il medico, nel rispetto dell’ordinamento, non può svolgere attività medico-legali quale consulente d’ufficio o di controparte nei casi nei quali sia intervenuto per ragioni di assistenza, di cura o a qualunque altro titolo, né nel caso in cui intrattenga un rapporto di lavoro di qualunque natura giuridica con la struttura sanitaria coinvolta nella controversia giudiziaria”.
Le indicazioni sono puntuali e l’unica opzione possibile e attuabile è quella della rinuncia all’incarico per incompatibilità.

Contravvenire a un principio deontologico equivale a porre in essere un comportamento colposo, in quanto la norma deontologica rappresenta un parametro di diligente adempimento della prestazione e assumendo il ruolo di consulente l’oculista diventa parte di un rapporto contrattuale con il proprio assistito e di un più complesso rapporto di natura pubblica se nominato consulente del giudice.

Al fine di ovviare tali inopportune situazioni, si rende indispensabile un’attività di controllo, messa in atto in primo luogo dal consulente medico-legale nominato dal giudice ma altresì da tutti gli altri soggetti del processo. È, infatti, primario e prevalente interesse per tutte le parti ottenere un parere che sia competente e oggettivo, senza che la benché minima ombra possa offuscarlo e indebolirlo.