Riassunto
La supplementazione degli acidi grassi omega-3 nel trattamento del dry eye è un argomento di grande interesse e dibattito nella comunità scientifica. Diversi studi suggeriscono come gli omega-3 possano apportare notevoli benefici nei pazienti affetti da dry eye da lieve a moderato-grave tramite un’azione su diversi livelli.
Queste molecole hanno dimostrato di controllare l’infiammazione alla base della patologia e di intervenire sulla stabilizzazione del film lacrimale, migliorando significativamente la qualità della componente lipidica.
Giocherebbe, poi, un ruolo cruciale sia la tipologia di omega-3 che il rapporto tra omega-3 e omega-6, ideale se pari a 4:1.
Tuttavia, benché ci siano vari studi clinici a supporto dell’efficacia degli omega-3 nel trattamento del dry eye, ve ne sono anche altri, tra cui il noto trial clinico DREAM (dry eye assessment and management), da cui non sono emerse differenze significative rispetto al placebo in termini di miglioramento dei sintomi nei pazienti con dry eye.
Per quanto la materia sia vasta, controversa e meritevole di ulteriori approfondimenti, si stanno gettando le basi affinché possa essere chiarito il ruolo che gli omega-3 avranno nella salute della superficie oculare.
La gestione e il trattamento del dry eye, unitamente al suo inquadramento eziopatogenetico, sono tra i temi al centro dell’attuale dibattito tra esperti di superficie oculare.
Ancora ampiamente sottovalutato, il dry eye è una malattia debilitante, con tassi di prevalenza e incidenza in costante e rapida crescita, specialmente tra la popolazione adulta-anziana.
Nell’inquadramento della patologia, nonché nella sua gestione, sarebbe buona norma, inoltre, tenere conto del ruolo sempre più di rilievo che lo stile di vita occupa. Ciò ci viene suggerito dalla varietà dei dati relativi all’incidenza e alla prevalenza in diverse parti del globo. Il continente asiatico parrebbe essere al vertice di questa classifica, seguito da Europa e Nord America (1).
Da qui emerge la necessità di tracciare un percorso chiaro e personalizzato di diagnosi, cura e management del paziente.
È noto ormai quanto la sindrome dell’occhio secco sia complessa e articolata, tanto da aver meritato, negli ultimi anni, varie revisioni della sua definizione.
L’ultimo aggiornamento, frutto di un workshop cui hanno preso parte specialisti del settore, inquadra il dry eye come un disordine multifattoriale della superficie oculare, caratterizzato dalla perdita di omeostasi del film lacrimale, da sintomi di discomfort oculare, in cui l’instabilità e l’iperosmolarità del film lacrimale, l’infiammazione, il danno della superficie oculare e le anomalie neurosensoriali svolgono un ruolo eziologico preminente (2).
A dare prova di quanto la materia sia vasta, articolata e in buona parte ancora da scoprire, ci viene in aiuto la patofisiologia che assegna il ruolo di primum movens all’instabilità del film lacrimale, sia essa derivata da ridotta produzione della componente acquosa del film lacrimale che dalla sua eccessiva evaporazione.
Dall’instabilità del film lacrimale scaturiscono, infatti, a cascata, l’iperosmolarità, il danno a carico della superficie oculare e l’infiammazione.
Trattasi di un circolo vizioso che, se non arrestato con i mezzi opportuni, è in grado di autoalimentarsi. L’infiammazione e il danno della superficie oculare, infatti, sono essi stessi causa di iperosmolarità, a meno di interventi mirati, come poc’anzi asserito.
Il discomfort oculare e la varietà di sintomi riferitici dai pazienti sono poi da ricercare nella stimolazione, indotta da mediatori dell’infiammazione e proteasi, dei nocicettori presenti sulla superficie oculare.
Tali mediatori, insieme all'iperosmolarità del film lacrimale, causano, infatti, l'apoptosi delle
cellule epiteliali corneali, congiuntivali, delle cellule caliciformi della congiuntiva e alterano il glicocalice, ovvero quello strato protettivo di mucine idrofile che, disposto sulla superficie epiteliale, assicura l'adesione del film lacrimale, generando un'interfaccia tra l'epitelio idrofobico e lo strato idrofilo del film lacrimale (3).
Tale stato di cose è responsabile di bruciore oculare, sensazione di corpo estraneo, dolore, nonché secchezza oculare/iperlacrimazione, ovvero alcuni tra i sintomi che più di frequente il paziente riporta. A questi si possono aggiungere la fotofobia, la visione annebbiata e il prurito.
Al contempo, l’obiettività clinica consta di iperemia congiuntivale, congiuntivocalasi, blefarite, secrezioni crostose alla base delle ciglia, cheratopatia puntata (fig. 1) e disfunzione delle ghiandole di Meibomio.

DIAGNOSI
La diagnosi di dry eye non può dunque prescindere dall’ascolto del paziente oltre che dalla valutazione degli appositi questionari DEQ/SPEED/OSDI e dei loro score.
Tenendo in stretta considerazione quanto riferitoci dal paziente, si procede con la valutazione tramite lampada a fessura di alcuni parametri obiettivi, tra cui lo stato della congiuntiva, il TBUT (tear break-up time) (fig.2), le caratteristiche morfologiche della palpebra, i cambiamenti nella espressibilità e qualità del meibo, il test di Schirmer e la colorazione di cornea e congiuntiva con fluoresceina. Utile, inoltre, l’impiego della meibografia con cui valutare il NIKBUT (non invasive keratograph break-up time), l’altezza del menisco lacrimale e la salute dei dotti delle ghiandole di Meibomio che in pazienti con dry eye da moderato a severo appaiono interrotti o assenti (4).

Ciò detto, valutati la storia clinica del paziente, i reperti oggettivi e posta diagnosi di dry eye, sarà utile e opportuno ai fini della terapia stabilirne la severità.
TERAPIE E IMPIEGO OMEGA-3
Infatti, gli approcci terapeutici a disposizione dei pazienti sono oggi molteplici e calibrabili sulla base della gravità del quadro clinico.
Negli stadi iniziali si prediligono l’igiene palpebrale, l’impiego di sostituti lacrimali per inumidire e lubrificare la superficie oculare e le modifiche dello stile di vita e alimentazione. Le abitudini alimentari, secondo diversi studi pubblicati in letteratura, sarebbero infatti in grado di incidere positivamente sull’outcome del paziente. In particolare, andrebbe incoraggiato e privilegiato l’introito di acidi grassi omega-3, come vedremo di seguito.
Sulle forme più avanzate della malattia si interviene, invece, con sostituti lacrimali privi di conservanti, corticosteroidi o antinfiammatori topici come la ciclosporina A che agiscono sull’infiammazione della superficie oculare, secretagoghi topici come l’insulina e/o l’occlusione puntale. Quest’ultima è una pratica minimamente invasiva che vede l’impiego di piccoli occlusori del dotto lacrimale per una maggiore permanenza delle lacrime sulla superficie oculare che risulterà così a lungo umidificata.
Negli stadi da moderato a severo si tende a diversificare ulteriormente l’approccio terapeutico con l’impiego di siero autologo, farmaci secretagoghi sistemici e l’applicazione di lenti a contatto terapeutiche. L’ultimo step della gestione del dry eye prende, poi, in considerazione l’utilizzo di patch di membrana amniotica e farmaci antinfiammatori sistemici.
Per quanto i sostituti lacrimali siano imprescindibili nell’armamentario terapeutico del dry eye, così come gli steroidi e/o gli antinfiammatori, non si può trascurare il ruolo che lo stile di vita e soprattutto la dieta assumono nella cura della patologia.
Come anticipato, sono gli acidi grassi omega-3 a occupare una posizione sempre più rilevante nel panorama terapeutico del dry eye, non solo nelle forme iniziali ma anche in quelle moderato-severe.
Si tratta di acidi grassi polinsaturi sintetizzati in vivo e/o ottenibili da fonti alimentari (5).
La supplementazione, qualora raccomandata, può avvenire attraverso la dieta e/o compresse/olio di pesce e di recente anche attraverso gocce oculari.
Gli acidi grassi polinsaturi omega-3 sono componenti strutturali essenziali delle membrane cellulari e precursori per la sintesi di numerose sostanze biologicamente attive.
I principali omega-3 includono l'acido alfa-linoleico a catena corta (ALA), l'acido eicosapentaenoico a catena lunga (EPA), l'acido docosapentaenoico (DPA) e l'acido docosaesanoico (DHA).
Mentre gli omega-3 a catena corta sono ottenuti da fonti vegetali, quelli a catena lunga sono concentrati nel grasso di pesci quali aringa, sgombro, merluzzo, salmone, sardine, tonno e altri, oltre a venire sintetizzati in vivo tramite un importante processo di elongazione degli acidi grassi a catena corta.
Oltretutto, l'attività biologica degli acidi grassi polinsaturi dipende anche dal rapporto di assunzione di omega-6 e omega-3 (6).
Le diete occidentali sono associate a un consumo eccessivo di acidi grassi omega-6, con un rapporto di 15:1, rispetto a un rapporto ideale di 4:1 cui si attribuisce un effetto antinfiammatorio (7).
Gli acidi grassi omega-3 presentano, infatti, proprietà antinfiammatorie, anticoagulanti e antipertensive e regolano il metabolismo lipidico, la tolleranza al glucosio e le funzioni del sistema nervoso centrale. Queste molecole esercitano il loro ruolo antinfiammatorio mediante inibizione competitiva con l'acido arachidonico come substrati per gli enzimi cicloossigenasi e 5-lipossigenasi (8).
Alla ribalta, inoltre, il ruolo delle resolvine e protectine, implicate, secondo la letteratura, in alcuni meccanismi di risoluzione dell’infiammazione.
Trattasi di modulatori selettivi dell’infiammazione derivati dagli acidi grassi omega-3 che, ostacolando l'infiltrazione leucocitaria e migliorando la funzione di pulizia dei macrofagi, sono in grado di promuovere l'integrità epiteliale corneale e la produzione lacrimale (9).
Questo è quanto è stato osservato in un modello murino di occhio secco (10).
Inoltre, a livello corneale le lipoossigenasi, di cui si è fatta menzione sopra, sintetizzano la neuroprotectina D1, un mediatore lipidico derivato dal DHA con attività antinfiammatorie, epiteliotrofiche e neuroprotettive (11).
L’effetto neuroprotettivo degli acidi grassi omega-3 sta suscitando notevole interesse tra le fila degli oftalmologi. Infatti, l’integrità delle strutture nervose corneali è alla base della produzione di lacrime, del riflesso protettivo dell'ammiccamento, nonché del rilascio di neuromodulatori trofici che assicurano e preservano il metabolismo dei tessuti della superficie oculare.
In studi su modelli animali di neuropatia corneale è stato infatti osservato che il DHA potenzia l'effetto del fattore di crescita nervoso (NGF) nella stimolazione della rigenerazione nervosa e della proliferazione epiteliale (12).
Inoltre, da un recente studio clinico, si apprende come tre mesi di integrazione di acidi grassi omega-3 abbiano determinato un aumento della lunghezza delle fibre nervose corneali e della densità dei rami nervosi (13).
L'effetto dell'intake di acidi grassi omega-3 può, però, variare a seconda dei sottotipi di dry eye. In pazienti con MGD (Meibomian gland disfunction), per esempio, la loro efficacia può dipendere non solo dall'attività antinfiammatoria ma anche dall'effetto sulla composizione dei lipidi meibomiani. Un ridotto apporto di omega-3 in modelli animali ha dimostrato, infatti, una ridotta secrezione di meibo (14).
Oltretutto è risaputo che gli acidi grassi omega-3, fluidi a temperatura corporea, possano potenzialmente abbassare il punto di fusione dei lipidi meibomiani, aumentandone così la fluidità e agevolandone la secrezione.
Una delle prime prove cliniche del ruolo di queste molecole per la salute della superficie oculare proviene da un ampio studio trasversale condotto su oltre 30.000 donne che ha dimostrato la relazione tra un basso apporto alimentare di acidi grassi omega-3 e un aumento del rischio di dry eye (6).
Per contro lo studio clinico multicentrico in doppio cieco DREAM (dry eye assessment and management) ha evidenziato simili risultati clinici in termini di segni e sintomi tra il gruppo di trattamento che ha ricevuto una dose orale giornaliera di omega-3 EPA e DHA e quello di controllo trattato invece con placebo (olio d’oliva) (5).
Va però precisato che il design reale dello studio ha consentito ai pazienti di continuare la terapia in corso per il dry eye senza modifiche e di aggiungervi quella con l'olio d'oliva utilizzato come placebo. Questo potrebbe aver ostacolato la significatività statistica tra i due gruppi.
L'utilità terapeutica dell'integrazione di acidi grassi omega-3 è stata comunque ulteriormente suffragata da due recenti metanalisi di studi clinici randomizzati che hanno concluso che gli acidi grassi omega-3 sono efficaci nel migliorare i segni e i sintomi del dry eye (15,16).
Da un altro studio randomizzato emerge, poi, fortemente come la dieta mediterranea, rispetto alle altre, abbia i requisiti che più si avvicinano a quanto è stato finora detto sia in materia di quantità che di qualità di acidi grassi (17).
In conclusione, per quanto il campo sia vasto e certi aspetti appaiano ancora poco chiari e meritevoli di approfondimento, si stanno ponendo ottime basi per implementare le conoscenze e dirimere eventuali dubbi.
Gli autori dichiarano l’assenza di conflitti di interesse.
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- J. P. Craig et al., «TFOS DEWS II Definition and Classification Report», Ocul. Surf., vol. 15, fasc. 3, pp. 276–283, lug. 2017, doi: 10.1016/j.jtos.2017.05.008.
- J. P. Craig et al., «TFOS DEWS II Report Executive Summary», Ocul. Surf., vol. 15, fasc. 4, pp. 802–812, ott. 2017, doi: 10.1016/j.jtos.2017.08.003.
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