Indubbiamente le infezioni nosocomiali sono una temibile complicanza anche nell’ambito dell’oftalmologia, e, tra queste, l’endoftalmite rappresenta il quadro clinico più grave e, purtroppo, molto spesso evolve nella perdita nell’occhio.
È necessario, tuttavia, considerare che non tutte le infezioni contratte dal paziente in ambito ospedaliero danno luogo ad un danno risarcibile, infatti, la Suprema Corte di cassazione, con la recentissima sentenza n. 6386/2023 pubblicata nel marzo scorso, indica in modo dettagliato quali siano i mezzi che definiscono gli oneri probatori, individuando anche le figure professionali che li dovrebbero garantire. La Suprema Corte ha, in parte, ribadito e, in parte, razionalizzato i criteri e gli oneri probatori in questa complessa materia, delineando i criteri utili per sostenere o meno la responsabilità dell’ente ospedaliero. La sentenza in commento presenta delle importantissime novità che dovranno essere colte da tutti professionisti che operano nel settore della responsabilità medica. In merito, i massimi giudici dapprima richiamano un principio già più volte enunciato (cfr. Cass. sez. III, 23/02/2021, n. 4864) secondo il quale in applicazione dei principi sul riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria, spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile e inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione.
Con riferimento specifico alle infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive e di dimostrare di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico. Occorrerà, inoltre, che siano rispettati il criterio temporale - dato dal numero di giorni trascorsi dopo le dimissioni dall’ospedale - e il criterio topografico - ossia l’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti - da valutarsi secondo il criterio della cosiddetta “probabilità prevalente” e, infine, il criterio clinico ovvero quali tra le necessarie misure di prevenzione era necessario adottare.
In particolare, i supremi giudici elencano gli oneri probatori gravanti sulla struttura sanitaria per attestare che le misure di prevenzione siano state rispettate:
- l’indicazione dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
- l’indicazione delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
- l’indicazione delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
- le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
- la qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
- l’attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
- l’indicazione dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori; le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali;
- l’indicazione del rapporto numerico tra personale e degenti;
- la sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
- la redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti a comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
- l’indicazione dell’orario dell’effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.
La Cassazione specifica che sussistono anche oneri soggettivi nell’ambito della prevenzione che attesterebbero, se omessi, la sussistenza di elementi colposi, anche in tema di responsabilità contabile. Tra questi, il dirigente apicale ha l’obbligo di indicare le regole cautelari da adottarsi e il potere-dovere di sorveglianza e di verifica (riunioni periodiche/visite periodiche), al pari del CIO. Il direttore sanitario quello di attuarle, di organizzare gli aspetti igienico e tecnico-sanitari, di vigilare sulle indicazioni fornite (art. 5 del DPR 128/1069: obbligo di predisposizione di protocolli di sterilizzazione e sanificazione ambientale, gestione delle cartelle cliniche, vigilanza sui consensi informati). Il dirigente di struttura (l’ex primario), inoltre, - proseguono i giudici di Cassazione - esecutore finale dei protocolli e delle linee guida, deve collaborare con gli specialisti microbiologo, infettivologo, epidemiologo, igienista, ed è responsabile per omessa assunzione di informazioni precise sulle iniziative di altri medici, o per omessa denuncia delle eventuali carenze ai responsabili.
La Suprema Corte elenca, infine, i compiti del medico-legale chiamato a decidere sia sul riconoscimento dell’infezione ospedaliera che sulla relazione causale tra le lesioni e le conseguenti menomazioni riportate dal paziente o sulla morte dello stesso. Questi deve indagare sulla causalità, tanto generale, quanto specifica, da un lato escludendo, se del caso, la sufficienza delle indicazioni di carattere generale in ordine alla prevenzione del rischio clinico, dall’altro evitando di applicare meccanicamente il criterio del post hoc – propter hoc, esaminando la storia clinica del paziente, la natura e la qualità dei protocolli, le caratteristiche del microrganismo e la mappatura della flora microbica presente all’interno dei singoli reparti. Al CTU andrebbe, pertanto, rivolto un quesito composito, specificamente indirizzato all’accertamento della relazione eziologica tra l’infezione e la degenza ospedaliera in relazione alla mancanza o insufficienza di direttive generali in materia di prevenzione (responsabilità dei due direttori apicali e del CIO) e al mancato rispetto di direttive adeguate e adeguatamente diffuse (responsabilità del primario e dei sanitari di reparto), all’omessa informazione della possibile inadeguatezza della struttura per l’indisponibilità di strumenti essenziali (Cass. 6138/2000; Cass. 14638/2004), precisando se il ricovero sia stato sorretto da corretta diagnosi e cura e/o sia stato praticato un trattamento appropriato (C. app. Milano 369/2006). Alla luce dei principi esposti, la Suprema Corte definisce dettagliatamente il perimetro operativo in una materia sempre complessa e non di agevole definizione, facendo ricorso ai principi di buona pratica clinica, coordinandoli con la normativa vigente in tema di riparto degli oneri probatori, orientando sia gli operatori sanitari sia i giuristi verso un corretto inquadramento delle singole fattispecie.