La miopia è uno dei difetti refrattivi più diffusi, ed è in costante aumento. Attualmente si stima che sia miope circa un italiano su quattro, ed alcune regioni mondiali hanno ormai raggiunto punte dell’85% di miopi.
L’OMS ha posto l’accento su tale fenomeno da parecchi anni, poiché la miopia elevata è un costo importante per i bilanci sanitari. L’incremento mondiale della miopia sembra essere correlato con l’aumento delle attività di lavoro da vicino. Da qui nasce l’esigenza di correre ai ripari, ricercando validi trattamenti terapeutici che possano arrestare tale fenomeno.
Miopia in crescita costante
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un incremento significativo della popolazione miope: siamo tutti più studiosi, abusiamo dello schermo del pc, del tablet, dei telefonini di ultima generazione. Può essere questa una risposta sufficiente a spiegare tale fenomeno?
Ciò che è certo e che, una volta insorta, la miopia non regredisce, può peggiorare o rimanere stabile nel tempo. Da questa considerazione nasce la ricerca continua di nuove strategie di azione che possano contrastare un indice di progressione repentino del difetto refrattivo.
Facciamo un passo indietro, e proviamo ad analizzare le fondamenta di una simile premessa. La miopia è un’alterazione dello stato refrattivo determinante durante la crescita, l’aumento della prevalenza interessa in particolare la popolazione scolare. Infatti, il lavoro per vicino prolungato (near-work) tipico delle ore di studio esercita, unito ai condizionamenti ereditari, un ruolo fondamentale nella progressione della miopia, tanto che negli Stati Uniti si è osservata una crescita dal 24 al 40% dagli anni ottanta ad oggi.
Tali percentuali sono ancora più rilevanti nei paesi del sud-est asiatico, dove l’85% della popolazione è diventato miope. Ciò non correla con le numerose condizioni sindromiche associate alla miopia: in queste forme, infatti, l’incidenza non ha subito incrementi significativi (basti pensare ad alcune collagenopatie, come la sindrome di Stickler). Proprio alla luce di dati epidemiologici così preoccupanti, dal 2012 è in corso il SiMES-2 (Singapore Malay Eye Study 2), un imponente studio prospettico di follow-up che ha arruolato gli stessi 3280 individui coinvolti nel SiMES-1, analogo studio condotto tra il 2004 e il 2006 in numerose regioni del sud-est asiatico.
Obiettivo del SiMES-1 è stato definire il peso epidemiologico di diverse patologie oculari, mentre gli end-points del SiMES-2 sono la valutazione della loro incidenza cumulativa, la progressione e i fattori di rischio nell’arco di sei anni fino al 2018.
E’ presto detto che ci si è concentrati sulla “miopia evolutiva”, intesa come un errato bilanciamento tra potere diottrico di cornea/cristallino e lunghezza assiale occorso durante l’età dello sviluppo oculare. Si tratta dunque di uno status refrattivo caratteristico, per definizione, dell’età scolare. Per delimitare esattamente i contorni patogenetici di questa definizione, è utile soffermarsi sui meccanismi fisiologici dell’accrescimento oculare.
L’equilibrio dinamico tra lunghezza assiale e potere diottrico di cornea e cristallino, che definisce il potere refrattivo totale dell’occhio, è stato ben illustrato nelle curve di Gordon e Donzis fin dal 1985 (fig. 1-3).
Il bulbo oculare dei neonati a termine si caratterizza per una lunghezza assiale media di 16.8 mm, con potere diottrico di cornea e cristallino rispettivamente di 51.2D e 34.4D, determinando una lieve condizione di ipermetropia.
Con l’accrescimento, ci si sposta verso l’emmetropizzazione, attraverso alcuni cambiamenti che si muovono in parallelo. Lungo questo percorso fisiologico, può interporsi qualche ostacolo: la deviazione dalle curve descritte è causa dell’errore refrattivo.
Forme di miopia
Le forme di miopia scolare rappresentano circa il 60% delle forme totali di miopia, e spesso progrediscono fino a superare le 6 diottrie, cut-off di inquadramento per una miopia elevata. Questo dato è rilevante dal punto di vista socio-sanitario, poiché, con il progredire dell’età, la miopia elevata può divenire degenerativa ed associarsi ad un aumentato rischio di complicanze oculari, quali distacco retinico, cataratta precoce, glaucoma e degenerazione maculare con neovascolarizzazione coroideale.
All’aumento della prevalenza dei miopi, si è dunque capito che non si trattava soltanto di fattori ereditari. Per questo, oggi la miopia è considerata come un fallimento dell’equilibrio omeostatico tra geni e ambiente. Tra i fattori genetici, sono stati proposti diversi modelli sul pattern di trasmissione del “tratto miopico”, sulla base delle diverse mappature genomiche effettuate con l'uso di SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms), e si è osservata una modalità di trasmissione autosomica (recessiva o dominante) a penetranza variabile o X-linked.
Complessivamente, nel corso degli ultimi venti anni, sono stati identificati almeno 18 possibili loci (MYP), presenti su 15 differenti cromosomi, probabilmente correlati allo sviluppo di miopia. Quanto all’ambiente, numerosi studi trasversali hanno dimostrato una significativa associazione tra il lavoro visivo per vicino (near-work) e un effetto protettivo del tempo passato all’aperto (time-outdoor).
L'idea che il lavoro per vicino potesse essere associato all'insorgenza e alla progressione della miopia è stata ipotizzata proprio perché si era osservato un incremento di incidenza in età scolare. Il defocus retinico ipermetropico che si realizza in presenza di near-work prolungato rappresenta uno stimolo alla crescita per diminuzione del rilascio di dopamina, nota per il suo effetto inibitorio sull’allungamento oculare.
La dopamina, prodotta dalle cellule amacrine, è un neurotrasmettitore dotato di importanti effetti regolatori a livello retinico, il cui rilascio correla con diversi stimoli visivi quali l’illuminazione retinica, i contenuti spaziali, il contrasto dell’immagine, e la presenza di un input visivo pineale. Di conseguenza, è facile comprendere anche perché il time-outdoor sia un fattore protettivo nei confronti della miopia: la visione per lontano richiede una minore accomodazione, e questa si accompagna solitamente alla presenza di ambienti aperti, in cui l’elevato grado di luminosità determina miosi.
Trattamenti farmacologici
Come abbiamo già detto, l’aumento dei soggetti miopi rappresenta un costo per i bilanci sanitari: da qui è partita l’esigenza di cercare un trattamento che rallentasse il processo di miopizzazione durante l’accrescimento.
Il principio di un trattamento farmacologico partiva dal presupposto che il lavoro per vicino inibisse il rilascio di dopamina, prodotta proprio sotto l’effetto della luce naturale. Per questo, si è iniziato a studiare i recettori antimuscarinici.
Tra le prima molecole studiate su modelli animali è stata provata la Prinzepina, grazie alla sua capacità di ridurre l’espressione delle metalloproteinasi, determinanti nell’allungamento sclerale. Questa molecola, però, ha dimostrato un minor effetto sull’accomodazione rispetto ad altri farmaci studiati oltre ai troppi effetti avversi. In seconda analisi, ci si è concentrati su un altro antimuscarinico, già noto agli oculisti: l’Atropina.
Si conoscevano già la sue grandi proprietà di cicloplegico, non considerando invece il miglioramento del near-work prolungato. L’atropina è infatti un antagonista non selettivo dell’acetilcolina per i recettori muscarinici, che crea una sorta di down-regulation su retina e sclera. Inoltre il blocco dei recettori muscarinici porta ad un rilascio di dopamina, che sembra inibire l’allungamento oculare. La svolta è avvenuta con gli studi ATOM (Atropine for the Treatment of Childhood Myopia, dal 2006 in poi) e la somministrazione oculare di una diluizione di atropina. Un collirio di atropina 1% creava però nel bambino troppi effetti collaterali, primo fra tutti l’intensa fotofobia e la necessità di allontanare molto gli oggetti per poterli mettere al fuoco. Inoltre, il rebound miopico successivo alla sospensione del trattamento aveva valori preoccupanti.
I protocolli di studio successivi (ATOM2) hanno dimostrato che lo stesso vantaggio si poteva ottenere con una concentrazione di 0,01% di atropina, diluita in lacrima artificiale, evitando però i numerosi effetti avversi. Tale trattamento ha dimostrato una riduzione della progressione miopica negli occhi trattati dopo soli sei mesi di trattamento.
Possiamo pertanto affermare che, ad oggi, il trattamento con atropina 0,01% è uno dei gold-standard farmacologici per tutti gli adolescenti in età scolare che manifestano fin dai primi anni di sviluppo un elevato indice di miopizzazione durante i follow-up oculistici.
Soluzioni terapeutiche non farmacologiche
Esistono altri trattamenti efficaci per la miopia? Tra i trattamenti in voga negli ultimi anni per contrastare la miopia non possiamo di certo non parlare di ortocheratologia, ossia l'utilizzo di lenti a contatto a geometria inversa progettate per rimodellare temporaneamente la cornea e permettere una visione distinta durante il giorno senza correzione ottica.
La maggior parte delle lenti orto-k, lenti rigide gas permeabili, vengono indossate di notte al fine di agire sulla superficie anteriore dell'occhio durante il sonno. I miglioramenti della vista sono pertanto reversibili e possono essere mantenuti soltanto continuando nel loro utilizzo. L'orto-k è però associato ad un aumentato rischio di infezioni del segmento anteriore (cheratiti microbiche).
Questo rischio è particolarmente preoccupante per i bambini e gli adolescenti, a maggior rischio di scarsa igiene nella gestione delle lenti. Negli USA, quasi un milione di persone si chiede ogni anno un consulto medico per un’infezione oculare ed il principale fattore di rischio rimane l'usura o il traumatismo causato da un utilizzo improprio delle lenti a contatto.
Proprio per questo motivo nel Myopia Consensus Statement della World Society of Paediatric Ophthalmology & Strabismus l'orto-k è considerato un trattamento efficace per ridurre temporaneamente la miopia, soprattutto se iniziato in età precoce, ma il tema della safety rimane rilevante per l’aumentata incidenza di cheratiti batteriche, che possono esitare in un danno visivo irreversibile.
Altro modello discusso ed approntato negli ultimi anni per il trattamento della miopia è il defocus periferico. Alcuni studi hanno infatti ipotizzato un ruolo svolto dalla retina periferica nello sviluppo di difetti refrattivi, suggerendo una correlazione tra l’ipermetropia periferica relativa e la miopia assiale. In altre parole, il defocus ipermetropico sarebbe lo stimolo che innesca un allungamento bulbare, e riducendo questo stimolo con delle lenti a minor quantità di defocus possibile la progressione miopica potrebbe essere fermata (fig. 4).
Questa teoria si basa sull’ipotesi che i soggetti emmetropi ed ipermetropi sono soliti presentare una miopia periferica (i raggi di luce periferici sono focalizzati davanti alla retina, fig. 4), i bambini che diventano miopi presenterebbero una ipermetropia periferica a partire da due anni prima dell’insorgenza della miopia (i raggi periferici sono focalizzati dietro alla retina). Quindi l’ipermetropia periferica sarebbe un fattore predisponente allo sviluppo della miopia e la correzione dell’errore periferico si tradurrebbe in un minor tasso di progressione miopica.
L’applicazione di lenti a contatto multifocali con uno o più anelli concentrici di potere diverso sembrerebbe la soluzione: si tratta di lenti morbide in grado di rallentare la progressione della miopia, grazie ad una specifica geometria.
Alcuni studi hanno dimostrato che queste lenti, oltre a ridurre lo sforzo accomodativo (messa a fuoco) nella visione prossimale, producono un defocus miopico periferico durante la visione a distanza che consente di controllare la progressione della miopia.
L’occhio interpreta questo defocus come un segnale di stop per l’aumento della miopia. Gli studi PREP (Peripheral Refraction in Preschool Children) e CLEERE (Collaborative Longitudinal Evaluation of Ethnicity and Refractive Error) hanno però dimostrato una scarsissima influenza della ipermetropia periferica sul rischio di insorgenza della miopia, sulla sua velocità di progressione e sulla lunghezza assiale.
Ad avvalorare questa controversia, sono seguiti numerosi trials clinici che non hanno evidenziato differenze statisticamente significative nella progressione della miopia di ragazzi che utilizzavano lenti a contatto monofocali vs. le multifocali a defocus periferico. In conclusione, anche l’efficacia di questo trattamento resta ad oggi controverso.
Un ringraziamento sentito al prof. Paolo Nucci